Molti lo definiscono la primula rossa del fotogiornalismo italiano e non senza ragioni: è inafferrabile, schizza senza preavvisi da una parte all’altra del mondo, perennemente con la valigia in mano e le macchine in spalla. Chi parla e scrive di lui non risparmia gli aggettivi: ribelle e schivo, originale, patriota internazionale, leggendario… Genovese di padre, madre milanese, Mario Dondero è nato nel capoluogo lombardo nel 1928 ed ha vissuto l’infanzia tra le due città. A sei anni, come racconta con orgoglio, aveva un successo indicibile presso le ragazzine per il modo ispirato con cui cantava Ma se ghe penso; poi, calciatore nelle file del Gorgonzola, periferia nord est di Milano, ricorda i premi partita pagati a formaggio, scambiato spesso con bottiglie di Lambrusco e salami di Felino. Il periodo della guerra lo vede partigiano sedicenne nella sesta Brigata Garibaldi sui monti della Val d’Ossola, catturato dai fascisti tornò a casa miracolosamente: si salvò perché tra di loro c’era anche un suo coinquilino del piano di sopra.
Inizia a lavorare come giornalista nei primi anni cinquanta e pubblica il suo primo articolo su Il Lavoro Nuovo di Genova, collabora con l’Unità e l’Avanti, poi è cronista di nera a Milano Sera e scatta le prime fotografie, perché i fotografi che conosceva non erano proprio così entusiasti di seguirlo per riprendere cadaveri insanguinati. Parte con una Rollei e le minime conoscenze essenziali: un centesimo diaframma 11 col sole e 5,6 col cielo coperto. Nel 1951 guadagna quindicimila lire al mese che di solito finisce in tre giorni, con ancora altri ventisette da scarpinare. Comincia a lavorare anche per l’agenzia fotografica di Fedele Toscani (padre di Oliviero) e poi per Le ore, la prima testata in Italia che dà grande spazio alla fotografia. I suoi fondatori Salvato Cappelli e Giulio Trevisani lo chiamano e diventa ufficialmente fotoreporter, catturato dal motto che avevano fatto proprio “una foto vale mille parole”. Il suo primo servizio lo realizzò durante la rivolta al manicomio criminale di Reggio Emilia, dove fu preziosa l’esperienza di nera e riuscì a introdursi nell’edificio vincendo la naturale timidezza: quando si ha in testa un risultato da raggiungere gli ostacoli scompaiono immediatamente. In quel periodo fa parte del gruppo dei Giamaicani di via Brera, insieme ad Alfa Castaldi, Camilla Cederna, Piero Manzoni, Luciano Bianciardi, Carlo Bavagnoli e Ugo Mulas che si davano appuntamento nelle salette fumose del bar Jamaica di Mamma Lina, “il Caffè degli Artisti di Milano, quando i caffè erano davvero i caffè e ci si andava per scambiare idee e per litigare sul sesso degli angeli”, o per fare progetti che volevano rivoluzionare il mondo. Se ci capitate salite al primo piano, c’è ancora oggi una foto che li ritrae. Lo scrittore Luciano Bianciardi nel suo romanzo La vita agra parla di tre giovanotti, Carlone, Mario e Ugo, fotografi bohemiens di “reportaggio, un mestiere che richiede buone spalle, se vuoi farti largo nella calca e scattare il flash al momento buono. Carlone lo vedevo, rincasando, steso sul letto a sfogliare vecchi numeri di Life: così, diceva, per trovare un’idea, uno spunto. Qualche volta lo accompagnavo fino alla Mondialpicts, l’agenzia fotografica dove lavorava insieme ad altri due ragazzi, alloggiati nella camera accanto alla nostra, Mario e Ugo. Alla Mondialpicts comandava un ragioniere con gli occhiali, basso e tondo, che tratteneva il cinquanta per cento su tutto il fatturato, e in cambio dava a nolo le macchine e i rotolini, anticipava le spese e prestava la camera oscura per lo sviluppo. Nient’altro: i servizi ciascun fotografo doveva cercarseli da sé, girando per le redazioni, inventarli, con la speranza che poi qualcuno li comprasse” (da “La vita agra” di Luciano Bianciardi, Rizzoli, Milano 1962). Quei tre erano Bavagnoli, Dondero e Mulas, che avevano fondato realmente una nuova agenzia, la Interpix alla quale Mario collaborò fino al 1955, quando decise di trasferirsi a Parigi.
Affascinato dalla scuola francese, scelse la capitale come base anche perché si era reso conto che vivendo all’estero era più facile vendere servizi in Italia. Ci resterà per più di trent’anni. Da lassù collabora con diverse testate come L’Espresso e L’Illustrazione Italiana, ma anche con Le Monde, Le Nouvel Observateur e Le Figaro. Frequenta scrittori e intellettuali e con molti di loro instaura rapporti di amicizia producendo una serie di intensi ritratti. Famosa è l’immagine del gruppo degli scrittori del Nouveau Roman (Alain Robbe-Grillet, Nathalie Serraute, Samuel Beckett, Claude Mauriac, Claude Simon, Jerome Lindon, Robert Pinget, Claude Ollier), fotografati a Parigi nell’ottobre del 1959 davanti alla sede della casa editrice Les Editions de Minuit. Robbe-Grillet dirà in seguito che il gruppo del Nouveau Roman in effetti non esisteva, fu Dondero ad inventarlo, trovandosi lì quella mattina e facendo una foto entrata nella mitologia letteraria del Novecento. Tra Parigi e il resto del mondo iniziano così i viaggi che lo portano dove la storia si svolge, soprattutto nell’Africa francofona, dove nel frattempo ha aperto altre collaborazioni con le riviste Jeune Afrique, Afrique-Asie e Demain l’Afrique. Negli anni sessanta collabora con “Il Mondo” di Pannunzio e nella redazione romana del settimanale, conosce Ennio Flaiano e Mino Maccari. Di ritorno da Parigi vivrà per quasi un decennio a Roma e anche qui frequenta gli intellettuali, tra cui Pier Paolo Pasolini che incontra con gli amici Alberto Moravia, Dacia Maraini, Laura Betti, Enzo Siciliano e Goffredo Parise: “pranzavamo spesso insieme da Cesaretto, in via della Croce, un luogo di straordinario fervore in cui si vedevano anche Gian Maria Volonté, Corrado Stajano, e tanti altri, era un centro di aggregazione importante per il mondo della cultura”. Negli anni settanta, è autore di documentari politico-sociali e di alcuni programmi televisivi in Italia e in Francia. Oggi collabora stabilmente con il Venerdì di Repubblica, Il Diario e Il Manifesto, usando come base il suo nuovo rifugio di Fermo, nelle Marche.
Il suo archivio è ormai immenso, soprattutto ritratti: il numero dei personaggi che ha incontrato nella sua carriera è impressionante, soggetti famosi, ma anche molta gente comune che nelle sue foto diventa protagonista di un universo che non conosce caste, come il clochard che ha seguito lungo le strade della provincia francese o i contadini turchi che si sono sbellicati dalle risa quando gli ha detto che di mestiere faceva il fotografo, non riuscivano a credere che uno con le fotografie potesse vivere. Dopo essere stato famoso soprattutto in Francia da qualche tempo anche nel nostro paese comincia ad avere i meritati riconoscimenti e le sue mostre e gli inviti si susseguono con un ritmo che solo lui può sostenere. “Sai, quando arrivi ad una certa età – mi dice – cominciano a cercarti tutti”. Così i suoi soggetti vengono consacrati con personali e libri un po’ ovunque, dalle Langhe di Cesare Pavese a Pasolini, da Paolo Volponi a Biamonti nella sua Liguria, fino a Piero della Francesca in Toscana. Nel 2006 è stato in Afganistan per il calendario di Emergency. Lavora ancora in analogico e solo in bianconero perché gli sembra immorale usare il colore per raccontare disagi e tragedie, è troppo leggero, distrae dalla sostanza. Per lo stesso motivo non ama l’estetica ammaliante, “le immagini di cronaca non possono essere leccate come quelle di moda, come se fossero fatte in studio. Nel loro utilizzo nei giornali poi sono quasi oscurate da troppa pubblicità patinata che le rende inoffensive, come se i fotografi non avessero rischiato la vita per farle”. A tal proposito Ferdinando Scianna ha scritto sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore: “Normalmente diffido di quanti, privi del dono della forma, considerano che questa sia un difetto. In ogni grande fotografo la forma, quando è forte e originale, è proprio quanto, oltre al documento del fatto, ci dà il senso di quel fatto. In un certo senso lo inventa, lo fa esistere. La forma di Dondero è scarna, spoglia, ma è tutt’altro che mancanza di stile. Gli assomiglia: timido, generoso, senza retorica, solidale”. Mario ribatte “per me fotografare non è mai stato l”interesse principale, non mi reputo un fotografo tout court, le foto mi interessano come collante delle relazioni umane, come testimonianza delle situazioni. Non è che le persone mi interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono” (dal catalogo Scatti per Pasolini, con un testo di F. De Melis, 5 Continents, 2005). “Il mio stile è semplice e senza artificio per trasmettere una visione schietta della realtà, un eccesso di eleganza rischia di assopire tutto. Cerco l’ironia di fronte a un potere forte, e il rispetto sensibile di fronte ai soggetti deboli. Tra le fotografie che mi piacciono di più ce n’è una di Salgado che mostra un contadino sem terra mentre con una mano blocca il fucile di un militare, è molto simbolica, le altre di Salgado invece mi colpiscono meno, hanno il difetto di essere troppo belle. Anche Life, pur essendo una testata gloriosa, non è mai stata il mio modello, era troppo sofisticata, troppo controllata dagli editori. Per evitare che il significato delle mie foto venisse stravolto non ho mai voluto lavorare per le agenzie, ma solo per i giornali che stimo per correttezza, anche per Famiglia Cristiana, ma non per quelli che notoriamente tendono a mostrare una realtà deformata dai loro interessi. Continuo a girare come un vagabondo solitario alla ricerca dell’umanità vera”. Però, conoscendolo bene, ci si rende conto che vagabondo non è, piuttosto è un viandante, perché il vagabondo è uno che non ha una meta mentre il viandante sa dove va, e Mario, spirito guascone, dove andare lo sa benissimo, il suo impegno è indiscutibile. Non è un fotografo ma un autore di giornalismo fotografico, perché così deve essere considerato chi è coinvolto profondamente con la realtà che racconta. “Ho visto tante situazioni di dolore e non posso restare indifferente, anzi mi chiedo se a volte, invece che fotografare per la cronaca non si debba intervenire per cambiare la storia.”
Tra i suoi ultimi lavori c’è il racconto di un viaggio di diverse settimane nella Russia Putiniana in compagnia del giornalista Astrit Dakli, alla ricerca di quello che rimane dell’impero sovietico a distanza di una generazione dal suo crollo. Il risultato è raccolto in un nuovo libro, I rifugi di Lenin. Ne parliamo a cena, tra un bicchiere di vino buono e le sue performances da chansonnier, con Les feuilles mortes di Yves Montand (che naturalmente ha conosciuto), e davanti alla sua voce calda e suadente capisco le ragazzine genovesi di tanti anni fa. Guardando i suoi occhi rivedo le persone che gli sono passate davanti: gli scrittori, gli studenti del 68 a Parigi, i nomadi irlandesi, i prigionieri africani, i medici cinesi del Mali, i cubani, i parenti delle vittime dell’Andrea Doria a Genova, la Grecia del processo a Panagulis, il tribunale Russell a Stoccolma, i legionari a Gibuti e il vecchio miliziano della Repubblica spagnola che gli racconta del suo amico finito nella foto di Bob Capa, il suo idolo tra i fotografi. Cittadino onorario di non so quanti comuni, “camallo” onorario del porto di Genova e una laurea honoris causa in arrivo proprio il 6 maggio, giorno in cui supera brillantemente il traguardo degli ottant’anni, Mario non ha nessuna intenzione di fermarsi, sta preparando un’altra valigia mentre il telefono squilla in continuazione e la sua gattina Nuska torna provvisoriamente padrona assoluta del territorio. Destinazione Sardegna, buon viaggio e… tanti auguri!
© Claudio Marcozzi/Fotografia Reflex 5/2008